Il fascino della montagna

Alpinismo

Ricorrente è la domanda, soprattutto dopo gli ultimi fatti di cronaca, sul perché alcuni individui amino scalare le montagne fino ad esporsi a imprese rischiose. In questo articolo cerchiamo di dare qualche risposta su quali siano le reali motivazioni, soprattutto di carattere psicologico, dell’alpinismo estremo.

Una premessa importante da fare è che l’analisi delle motivazioni “profonde” ha come limite il fatto che non si possono fare generalizzazioni sulla scorta di un numero limitato di alpinisti che si sono sottoposti ad indagini sulla propria personalità. Ciò non toglie che si possano individuare tipi di motivazione ricorrenti, più o meno palesi, e dunque tipi di alpinisti. Questa tipizzazione si manifesta già nelle diverse finalità e modalità dell’ascensione prediletta: è da notare in primis la differenza tra alpinismo classico (che mira alla conquista della vetta), e l’alpinismo dell’arrampicatore, specie free climber, che trascurando la vetta privilegia “l’estetica” della salita, nel senso sia di bellezza del gesto e sia di piacere propriocettivo nell’armonioso movimento ascensionale. E’ verosimile che queste preferenze si correlino a tipi di personalità e a motivazioni differenti.

Altre finalità possono essere di “competizione” e dunque di vittoria di chi fa gare di velocità o di concatenazione del maggior numero di cime in un dato tempo; oppure la finalità dell’alpinista delle grandi vie di roccia e ghiaccio, che richiedono più giorni in quota, in cui prevale il tema della “fruizione” di straordinari spettacoli naturali; o ancora, altra finalità è quella di “esplorazione” e, infine, la vera e propria “collezione” di cime da vantare in un trofeo di gloria.

Ma la montagna può rappresentare per gli alpinisti anche un luogo del simbolico: a un estremo vi è l’alpinista che si rapporta ad essa come a un “nemico” con cui lottare, da vincere, o anche da violare. All’estremo opposto troviamo il rapporto “amoroso” di chi attribuisce alla montagna significati materni. Tra i due estremi vi è anche chi vive la montagna come un luogo “rilassante”: la montagna solitaria è il luogo del proprio valore ritrovato.

Non c’è dubbio che l’alpinismo sia uno degli sport a più alto rischio: la vita è appesa a un chiodo, ad una corda… si gioca dunque con la vita. E di qui la domanda fatidica: perché? Si riscontra un sottile gusto a giocare con la vita, specie quando è irragionevole affrontare la scalata in certe condizioni. Quel gusto spesso di dispiega a seguito di un’inconscia presunzione di essere immortale (“tanto a me certo non toccherà!”); è la stessa hybris dell’eroe in guerra: la denegazione della morte come affare che non lo riguarda. In questi soggetti la motivazione è data dal bisogno di avere un’alta soglia di eccitazione, per potersi sentire vivere!

Rischiare il pericolo mortale permette di assaporare meglio ciò che offre la vita. Patrick Edlinger (1985), parlando delle sue spericolate arrampicate in solitaria sosteneva:

“Mi permettono di vivere giorno per giorno. Ho un bel sapere che non cadrò, ma mi può succedere. Questo rimette in discussione ogni giornata, tu non sai quanto tempo hai da vivere, è un gioco. Di colpo non perdi più un attimo, impari ad apprezzare le cose semplici come il sole, l’aria, l’acqua. Non posso dirmi “ho tempo”.

Una scalata esige, quindi, qualità psichiche e capacità fisiche: in particolare, avere sicurezza di sé nel superare le criticità; decidere e agire con logica e concretezza in ogni condizione; saper unire fantasia e realtà, avventura e autoconsapevolezza; essere in grado di concretizzare e condividere il progetto e la sua strategia; avere sopportazione, preparazione fisica, resistenza; compiere contemporaneamente l’idea e l’azione; unire pianificazione a flessibilità; cercare il limite senza escludere la rinuncia; puntare alla vetta ma decidere sempre per la vita.

Concludendo, il mondo psicologico dell’alpinista resta labirintico e risulta ancora più ampio di quanto ora solo abbozzato: rinveniamo figure simboliche che si stagliano maestose lungo i profili della montagna a rappresentarne le sembianze che, di volta in volta, sono state assegnate alle sue forme; intrecciamo nei pendii la comunicazione tra Cielo e Terra che sin dall’antichità ha originato miti, credenze, riti; ascoltiamo la voce potente del sacro, tremendo e sublime. Nei sentieri della mente di coloro che si inoltrano nei territori della montagna, principio di realtà, principio di piacere e aspetti psicologici più vari segnano tracce non solo materne, seduttive, accoglienti, ma anche paterne, complessuali, violente, dove si annodano forze creative e pulsioni distruttive, sentimenti di onnipotenza e urla di abbandono, confusione di ideale dell’Io e Io ideale, scissioni dell’identità e integrazione della personalità, collusione tra narcisismo e masochismo, lotta tra Eros e colpa, pulsione di conoscenza e sfida alle paure, senso di rinascita e colloqui di fantasmi, ricerca del limite e precipitare della lentezza, attese di vita e bilico di morte. Tutto questo è la montagna e il mondo degli alpinisti che si dona e si cela tra esaltazione e depressione, realtà e sogno, voragini ed estasi.

 

Per approfondire il tema:

Boivin J.M., “Il gusto del rischio”, Annuario 1985, Sezione C.A.I. di Varese, Varese.
Edlinger P., “Arrampicare è vivere”, Annuario 1985, Sezione C.A.I. di Varese, Varese.
Fornaro M. (1993), “Psicoanalisi degli alpinisti”, Neurologia, Psichiatria, Scienze Umane, 12, 503-517. 
Saglio G., Zola C. (2007), “In su e in sé. Alpinismo e psicologia”, Priuli & Verlucca, Torino.
Kehrer S., Nones W. (2009), “E’ la montagna che chiama”, Mondadori, Milano.

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